Repubblica Democratica del Congo – Denis Mukwege, l’uomo che “ripara” le donne

23 Novembre 2018

(ANS – Bukavu) – In occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, che si celebra il prossimo 25 novembre, presentiamo la figura del medico congolese Denis Mukwege, Premio Nobel per la Pace 2018, che dedica la propria vita a curare le vittime d’indicibili abusi.

di Carlo Tagliani

È conosciuto in tutto il mondo come “l’uomo che ripara le donne” perché lui le donne le “aggiusta” davvero. Medico, specializzato in ostetricia e ginecologia, Denis Mukwege dedica la propria vita a soccorrere e a curare le prime vittime della violenza che da decenni insanguina la Repubblica Democratica del Congo, definita dalle Nazioni Unite “il peggior luogo del mondo per una donna”.

Nato il 1° marzo del 1955 a Bukavu, nella provincia orientale del Sud Kivu, zona poverissima, teatro di conflitti etnici e di traffici illegali delle ricchezze minerarie, fin da bambino Mukwege percepisce le difficoltà e le condizioni di oggettiva inferiorità in cui vivono le donne e decide di fare quanto è in suo potere per aiutarle.

“Terzo di nove figli – racconta – sono nato all’interno di una famiglia pentecostale. Mio padre era il pastore della comunità e, ogni volta che lo accompagnavo a far visita ai malati, mi rendevo conto che le pazienti dell’ospedale ricevevano cure insufficienti e non di rado morivano dopo il parto. Mi domandavo con insistenza che cosa avrei potuto fare per alleviare le loro sofferenze e decisi di studiare medicina”.

Terminate le scuole superiori si trasferisce in Burundi per frequentare la Facoltà di Medicina e in Francia per specializzarsi in Ginecologia e Ostetricia. Rifiutata l’offerta di stabilirsi in Europa e il miraggio di una brillante carriera accademica, Mukwege – fedele alla propria decisione – torna a Bukavu per impegnarsi in prima linea contro la violenza sulle donne.

“La zona orientale del Congo – spiega – possiede giacimenti di coltan, di tantalio, di cobalto e di numerosi altri minerali essenziali per lo sviluppo dei Paesi industrializzati. Potrebbe aspirare a trasformare il Paese in una delle nazioni più ricche del mondo e invece la sua ricchezza si sta rivelando la sua disgrazia: da decenni, ormai, è percorso da conflitti e violenze che mietono vittime soprattutto tra le donne e i bambini provocando milioni di morti. Il mancato rinnovamento politico, unito alla carenza di prospettive, ha trasformato il corpo delle donne in un campo di battaglia e lo stupro in un’arma di guerra che non viola solo il fisico di chi lo subisce, ma la psicologia e la coesione dell’intera comunità”.

Centinaia e centinaia di donne della Repubblica Democratica del Congo, negli ultimi vent’anni, sono state e sono ancora violentate e segnate per la vita. Prima nel corso delle due guerre civili che tra il 1996 e il 2003 hanno visto fronteggiarsi sul territorio congolese gli eserciti regolari di ben sei nazioni e che hanno condotto alla presidenza del Paese prima il generale Laurent-Désiré Kabila e poi suo figlio Joseph Kabila.

Poi durante il conflitto che tra il 2004 e il 2009 ha contrapposto le province del Nord Kivu e del Sud Kivu in una guerra senza esclusione di colpi tra l’esercito congolese e le forze ribelli del Congresso Nazionale per la Difesa del Popolo (CNDP). E, ancora oggi, con le continue razzie messe in atto da gruppi armati provenienti da Uganda, Ruanda e Burundi che, con la complicità di bande armate di giovani congolesi, costringono le comunità ad abbandonare le proprie terre per occuparle e sfruttarle.

I motivi di fondo, pur con sfumature diverse, sono sempre i medesimi: controllare i giacimenti minerari e l’accaparrarsi le materie prime per venderle al miglior offerente.

“Per terrorizzare le comunità e ‘convincerle’ a non opporre resistenza – prosegue Mukwege – gli aggressori si accaniscono prevalentemente contro le donne: le violentano in pubblico, non di rado davanti al marito o ai figli, e le torturano quasi sempre con oggetti che provocano loro gravi lesioni e ferite all’apparato genitale”.

Nel 1989, per offrire cure e sollievo alle donne del Sud Kivu, Mukwege realizza un reparto ospedaliero di maternità a Lemera, ma viene distrutto. Senza perdersi d’animo ne costruisce un altro a Bukavu, la sua città natale, ma anch’esso ha vita breve. Con fiducia e tenacia realizza – sempre a Bukavu – il “Panzi Hospital”, che dal 1999 ha ospitato e curato oltre 50.000 donne vittime di violenze sessuali di ogni tipo.

“Sono come un fazzoletto strappato: si devono prendere i fili e riannodarli uno a uno”. Così Mukwege descrive le condizioni fisiche e psicologiche delle donne che varcano le soglie del Panzi Hospital per essere “riparate”.

Il suo impegno e la sua dedizione sono conosciuti e riconosciuti in tutto il mondo. Nel 2012 ha tenuto un discorso alle Nazioni Unite per denunciare gli abusi e le violenze cui sono sottoposte le donne congolesi e, prima del Nobel, nel 2014 è stato insignito dal Parlamento europeo del Premio Sacharov per la sua battaglia a favore dei diritti umani e della libertà di pensiero.

In più occasioni ha chiesto l’istituzione di un Tribunale penale internazionale per il Congo, consapevole che “quando si parla di milioni di morti, di oltre 1.800.000 donne violentate, non si può non avviare un processo che permetta di conoscere la verità e di fare giustizia”.

Le sue denunce e le sue prese di posizione lo hanno esposto a ritorsioni e a minacce: dopo il discorso all’Onu, per esempio, ha subito un attentato da parte di quattro uomini armati che è costata la vita a una guardia della sua scorta e minacce alla sua famiglia che lo hanno spinto a un esilio forzato in Svezia e a Bruxelles.

In seguito alla mobilitazione delle “sue” donne, che ne hanno chiesto a gran voce il ritorno, Mukwege ha ripreso la propria missione al Panzi Hospital. “Se devo fare un bilancio della mia vita – conclude – mi rendo conto che devo tutto alle donne e al loro coraggio, a cominciare da mia moglie, con la quale identifico ogni paziente. Non so quante volte, osservandole nei loro letti di dolore, mi sono disperato e mi sono domandato: ‘Come potranno riprendersi?’. E ogni volta scopro che si rimettono in piedi non per se stesse, ma per le loro famiglie e per i loro figli. Credo che noi uomini abbiamo davvero molto da imparare da loro”.

Fonte: Dimensioni Nuove

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