“Mio padre era un Arameo errante”
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24 Novembre 2016

Ognuno di noi ha in comune con l’altro più di quanto pensa; è molto più quello che ci unisce di quanto ci divide. In ogni regione del mondo, nelle nostre città come anche nei luoghi più remoti, vi sono persone che per diversi motivi cercano un posto dove poter vivere una nuova vita.

Essere in movimento è una condizione intrinseca delle società di oggi, che è diventato più evidente e problematica. Da sempre i nostri popoli sono stati costruiti ed arricchiti dal contributo di milioni di persone che avevano lasciato la loro patria e che portavano con sé le loro radici e la loro eredità culturale, rendendo ogni paese un luogo più ricco, in cui si generavano nuove realtà di vita.

Quest’incontro tra persone di origine diversa porta inizialmente tensioni e incomprensioni, paura verso ciò che è diverso e un naturale rifiuto di lasciare le proprie sicurezze, così che di solito si finisce con il costruire barriere e muri di difesa. Si sta più comodi con le persone che pensano e sentono come noi.

Oggi nella nostra cultura è sempre più frequente l’incontro con coloro che sono “diversi da noi”, e piaccia o no, la gente deve decidere su come relazionarsi con gli altri. Nelle nostre città il vero problema non è accogliere le persone che arrivano, ma piuttosto l’incapacità di ascoltarle. La città mette le sue barriere e in molti casi finisce per isolarli. E quelli che vanno contro questo sistema e cercando di umanizzarlo, generalmente ottengono il rifiuto.

Abbiamo di fronte due opzioni: possiamo continuare a vivere la nostra vita, allontanandoci, ignorando o rifiutando chi è diverso; o possiamo iniziare a provare a conoscere, comprendere, convivere e rispettare gli stranieri che arrivano nelle nostre città. La seconda opzione è probabilmente quella più difficile, ma è anche quella più coraggiosa, perché ci costringe uscire da noi stessi e a fare spazio “all’altro”.

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