RMG – A colloquio con il Consigliere Generale per la Formazione, don Ivo Coelho

18 Settembre 2020

(ANS – Roma) – Il Capitolo Generale 28° lo ha confermato nell’incarico di Consigliere Generale per la Formazione, cui era stato chiamato nel 2014. Dopo sei anni di attività, ha ancora obiettivi importanti che intende perseguire per favorire la qualità della formazione dei salesiani di oggi. Stiamo parlando di don Ivo Coelho, che oggi ci illustra il cammino percorso e le prospettive di futuro.

Cosa porta con sé dell’esperienza del CG28?

Quando penso al CG28, la prima cosa che mi viene in mente è la presenza dei giovani con noi. È stato meraviglioso che ce l’abbiano fatta: hanno corso il rischio di venire, in mezzo alla pandemia e ai problemi per i viaggi. Sono stati un dono per noi, e a loro volta hanno scoperto qualcosa di nuovo su di noi. Ci sono stati due momenti in cui hanno parlato all’assemblea capitolare e c’è stata una differenza tra i due momenti. Non in quello che hanno detto - sono sempre stati franchi e talvolta provocatori - ma nell’atteggiamento. Alla fine della settimana, quello che hanno detto è nato dall’aver vissuto un’esperienza comunitaria unica con i salesiani di tutto il mondo, ed è stato chiaro che erano stati toccati. Hanno visto che in qualche modo era possibile essere così diversi e vivere e lavorare insieme. La loro esperienza di cercare di mettere insieme un “messaggio” per noi è stata davvero stimolante e gli ha fatto anche apprezzare ciò che hanno visto tra noi salesiani. Noi, a nostra volta, abbiamo avuto una visione diretta di ciò che i giovani sentono e pensano e dicono - anche se, devo dire, che io per primo ero molto profondamente consapevole che questo particolare gruppo di giovani rappresentava solo una particolare sezione dei giovani - quelli che sono in profondo contatto con noi. Continuavano a dirci: “Abbiamo bisogno di voi, salesiani: non del vostro lavoro, ma della vostra presenza con noi, del vostro camminare con noi”. Ma ci sono, ne sono sicuro, molti altri giovani che sono abbastanza lontani da noi e che rappresentano un tipo di sfida molto diverso. Ma da questi giovani, quelli che sono venuti al Capitolo, il loro messaggio era chiaro: “vi vogliamo con noi”. Il Rettor Maggiore ha giustamente parlato del sacramento della presenza. La presenza salesiana non è qualcosa di strumentale, non è “per il bene di qualcos’altro”. È un’anticipazione della vita eterna. La presenza salesiana è una mediazione concreta della presenza del “Dio-con-noi”; e in qualche modo possiamo dire che è un’anticipazione della preghiera di Gesù al Padre per tutti noi: “Padre, voglio che anche quelli che mi hai dato siano con me dove sono io” (Gv 17,24). Questo “stare con” costituisce il cuore e l’essenza della vita eterna: “stare con Dio e con tutti i fratelli” (AGC 421 35). Per noi salesiani che siamo così felici di “fare le cose” e di “tenerci occupati” è meraviglioso rendersi conto dell’incredibile ricchezza che sta alla base del nostro carisma: che la nostra presenza tra i giovani non è solo la via, ma proprio quella a cui Dio ci conduce.

L’altra cosa che ricordo del CG28 è, naturalmente, che non siamo stati in grado di finirlo: è stato il Capitolo segnato dalla pandemia di Covid-19. Ma le poche settimane che abbiamo trascorso insieme sono state senza dubbio un’esperienza di comunione. Ho visto diversi Capitoli Generali, e ringrazio Dio per la meravigliosa crescita della comunione e della fraternità tra noi. Naturalmente, gli ultimi sei anni per me, come Consigliere Generale per la Formazione, mi hanno portato ad un contatto molto più stretto con tanti confratelli di tutto il mondo, e così è stato ancora più bello incontrarsi di nuovo a Valdocco. Se la comunione e la presenza sono l’essenza della vita eterna, allora certamente ogni volta che sperimentiamo la comunione e siamo presenti gli uni agli altri, abbiamo una piccola anticipazione della vita eterna.

Quali sono stati gli assi fondamentali del suo Dicastero nel sessennio passato?

Il primo grande punto riguarda la formazione permanente. Ci siamo resi conto che i due capitoli “formativi” delle nostre Costituzioni sono stati scritti esplicitamente dal punto di vista della “formazione permanente”. In altre parole, quando le nostre Costituzioni parlano di “formazione”, intendono “formazione permanente” e non, come molti di noi ancora pensano, “formazione iniziale”. La formazione non è qualcosa che noi “terminiamo” con la professione perpetua o con l’ordinazione. Siamo in formazione per tutta la vita - semplicemente perché la formazione è la nostra risposta continua e quotidiana a Dio che ci chiama e ci parla ogni giorno. La formazione, in altre parole, è per tutta la vita. Questo è stato l’argomento della lettera pubblicata in AGC 425.

Al centro della formazione così intesa ci sono due paroline, in italiano: “fare esperienza”, che in inglese sono state tradotte come “learning by experience”. La formazione consiste nell’“imparare attraverso l’esperienza il significato della vocazione salesiana” (Cost. 98). Non è solo fare esperienza, è imparare attraverso l’esperienza. E cos’è questo apprendimento attraverso l’esperienza? È la capacità di guardare ciò che abbiamo sperimentato e di ascoltare ciò che lo Spirito ci dice attraverso quello, come riporta l’articolo 119 delle Costituzioni: “Vivendo in mezzo ai giovani e in costante rapporto con gli ambienti popolari, il salesiano si sforza di discernere negli eventi la voce dello Spirito, acquistando così la capacità d’imparare dalla vita”. Se posso imparare a vivere così, in un permanente atteggiamento di discernimento - quello che Papa Francesco chiama “sguardo contemplativo” - sono in formazione permanente. Per questo il titolo dell’articolo 119 è: “La formazione permanente come atteggiamento personale”. E finisce meravigliosamente: “[Il salesiano] si sente poi chiamato a vivere con impegno formativo qualunque situazione, considerandola un tempo favorevole per la crescita della sua vocazione”. Non importa se un’esperienza è “buona” o “cattiva”: ciò che conta è guardarla e ascoltare ciò che lo Spirito ci dice attraverso di essa.

Questo ci porta ad un’altra grande “luce”: il nuovo modo di esercitare l’autorità, che è per molti versi il vecchio modo, il modo di Don Bosco. Il servizio dell’autorità nella Chiesa non è un moto ad una direzione, dall’alto verso il basso: il superiore che comanda e i sudditi che obbediscono. “Nelle cose di rilievo cerchiamo insieme la volontà del Signore in fraterno e paziente dialogo e con vivo senso di corresponsabilità” dice l’articolo 66 delle nostre Costituzioni. L’autorità rimane autorità, ma l’accento è posto sulla dinamica della fraternità - e questo per un’ottima ragione, come ci ricorda Papa Francesco: che lo Spirito è dato a tutti nella Chiesa, ad ogni battezzato. Per questo il discernimento comunitario è così importante. Il Sinodo sulla Gioventù ha parlato di una Pastorale Giovanile Sinodale, e quello che voleva dire è che i giovani non sono solo oggetto della Pastorale Giovanile, sono soggetti attivi (“protagonisti”, diremmo in italiano). Prima i Sinodi sulla Famiglia avevano insistito sulla stessa cosa: che le famiglie sono soggetti attivi e non solo oggetto di pastorale. La capacità di ascolto e di dialogo è oggi essenziale al servizio dell’autorità. Uomini di Dio, il bellissimo film su Christian de Chergé e i suoi fratelli monaci di Thiberrine, è per me un grande esempio di discernimento comunitario. L’emergenza sanitaria che stiamo vivendo ci offre ampie possibilità di ascoltare con pazienza i nostri fratelli e di dialogare con fede prima di prendere decisioni.

Il protagonismo dei giovani nella Pastorale Giovanile e l’importanza del discernimento comunitario non possono non avere implicazioni nei nostri processi di formazione iniziale. Il modo migliore per formare i nostri giovani confratelli ad una Pastorale Giovanile di tipo sinodale è quello di assicurarsi che sia sinodale il metodo con cui noi ci occupiamo di essi. “Cos’è questa strana parola ‘sinodale’?” mi ha chiesto recentemente un confratello. “Sinodo” significa fondamentalmente “percorrere la via insieme”, e una formazione sinodale è qualcosa che non è ad una sola direzione, dall’alto verso il basso, della serie: “Lo fai perché lo dico io”. Piuttosto, è qualcosa che è in grado di “toccare il cuore”. La formazione non può consistere solo nella conformità esterna. Non è solo una questione di disciplina. Se la formazione non tocca il livello delle convinzioni, degli atteggiamenti e delle motivazioni, è una perdita di tempo. Se la formazione non cambia la radice del mio essere, il luogo “da cui vivo”, è “un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna” – per dirlo con le parole di San Paolo.

Il dialogo è la grande via del cuore. Incontriamo i nostri confratelli in formazione nello stadio attuale della loro libertà, e con pazienza ci impegniamo a dialogare con loro. Ci guadagniamo la loro fiducia, sapendo che la fiducia non può essere imposta. La Lettera di Don Bosco da Roma - scritta da quella che oggi è la Sede Centrale - è un testo fondamentale non solo per la Pastorale Giovanile, ma anche per la Formazione. Per questo ci sembra giusto dire che il nostro modello di formazione è il Sistema Preventivo.

Alla luce di tutto questo, è ovvio che abbiamo insistito sulla formazione dei formatori. Qualcuno ha detto di recente che tutti i salesiani dovrebbero essere anche formatori, e in questo c’è del vero - soprattutto se l’accompagnamento riacquista nella Pastorale Giovanile la centralità che aveva per Don Bosco. Tuttavia, la Chiesa insiste sul fatto che oggi il buon senso non basta per offrire un buon servizio di formazione. I formatori devono essere preparati in qualche modo, soprattutto per la loro crescita. “Non c’è niente di più salutare per dei formandi che un sano formatore”, mi disse qualcuno molti anni fa, e questo rimane profondamente vero. I formatori hanno bisogno di prendersi cura di sé, della propria salute spirituale, emotiva e salesiana. La Scuola di Accompagnamento che vogliamo offrire intende impartire non solo competenze sull’accompagnamento spirituale salesiano, ma anche un aiuto per la salute individuale, in senso ampio, del formatore.

Infine, un altro dei punti forti dell’ultimo sessennio è stata l’attenzione all’identità consacrata salesiana. Il CG24 ha insistito molto sulla condivisione dello spirito e della missione di Don Bosco con i laici. È anche molto chiaro che i salesiani non annegano la loro identità consacrata all’interno della missione condivisa. Come hanno insistito i documenti della Chiesa (come Christifideles laici), essa è una comunione di identità, dove l’identità è intesa non come separazione, ma in relazione alle altre vocazioni della Chiesa. Come il diacono è un’icona di servizio, eppure non è certo l’unico chiamato a servire nella Chiesa, così anche i consacrati devono ricordare che tutti noi siamo chiamati a qualcosa di meraviglioso, alla vita di Dio, alla vita eterna. Quando eravamo giovani, la vita religiosa veniva identificata praticamente con la fedeltà ai voti. Oggi la Chiesa e la Congregazione stanno scoprendo che è molto di più, che è un modo di seguire il Signore. La persona consacrata si sente chiamata a seguire Gesù anche nelle sue scelte molto particolari, come ad esempio quella di non essere sposato. Qui c’è una bellezza e una gioia che siamo chiamati a scoprire, e soprattutto a comunicare e a vivere.

Credo che più scopriamo e viviamo l’aspetto consacrato della nostra vocazione salesiana, più chiari diventeranno i due modi di vivere la nostra vocazione, quella del Coadiutore e quella del Sacerdote. Quanto più ci appropriamo dell’aspetto salesiano e consacrato della nostra vocazione, tanto più scopriremo ciò che è specifico del Sacerdote o del Fratello. E penso che i Coadiutori siano sulla buona strada per riscoprire e riaffermare la loro identità salesiana consacrata. La questione è come condividere questa riscoperta con i confratelli sacerdoti e con il grandissimo numero di giovani salesiani, specialmente nelle regioni dell’Asia Sud e dell’Africa-Madagascar, che aspirano al sacerdozio. Siamo prima di tutto religiosi salesiani, e solo dopo Sacerdoti o Coadiutori: su questo non c’è dubbio.

Tra sei anni, cosa sogna per il suo Dicastero?

Permettetemi di parlare qui di due grandi idee che non ho ancora menzionato.

La prima è quella che potremmo chiamare accompagnamento pastorale. Una delle grandi indicazioni che ci viene dal CG28 e da Papa Francesco è che la formazione non è solo per la missione, ma nella missione. Ma come tradurre questa grande idea in una prassi viva? Io credo che non sia sufficiente un aumento meramente quantitativo dell’attività apostolica. Lasciate che mi spieghi. Non basta semplicemente aumentare il tempo dedicato all’apostolato. Non basta nemmeno chiudere le nostre case di formazione e inserire i formandi nelle comunità pastorali, cercando di imitare Don Bosco che formava i suoi primi salesiani in mezzo ai giovani. È importante prendere nota del Convitto Ecclesiastico, dove don Cafasso non solo accompagnava giovani sacerdoti come Don Bosco nelle carceri e in altri luoghi, ma li aiutava anche a riflettere e ad imparare dalla loro esperienza. In altre parole, l’esperienza da sola non basta: bisogna fare in modo che ci sia riflessione e apprendimento dall’esperienza. Questo è ciò che potremmo chiamare “accompagnamento pastorale”.

L’accompagnamento pastorale viene fatto probabilmente, in qualche modo, durante il colloquio amichevole con il Direttore. Potrebbe essere fatto in modo molto proficuo anche in piccoli gruppi, con l’aiuto del coordinatore pastorale. Consiste non tanto nel riferire “ciò che è stato fatto”, quanto piuttosto “ciò che è successo a me” durante l’esperienza pastorale. Quando qualcuno è in grado di fare questo tipo di condivisione, una guida esperta potrà aiutare lui - e il gruppo - a “scavare più a fondo” e ad arrivare così al livello delle convinzioni, degli atteggiamenti, delle motivazioni. Ci sono “tecnologie umane” che possono aiutare i formatori ad imparare questo tipo di accompagnamento - penso a corsi come la “Clinical Pastoral Education” (CPE) che sono disponibili in diverse parti del mondo, e che alcune conferenze episcopali hanno reso obbligatorio per i loro seminaristi. Forse noi stessi abbiamo bisogno di organizzare dei piccoli laboratori di formazione a questo proposito. Sono convinto che questo sarà un grande passo avanti verso quella “formazione nella missione” su cui il CG28 ha insistito. 

Dovrebbe essere evidente che l’accompagnamento pastorale è semplicemente un modo per mettere in pratica “l’apprendimento attraverso l’esperienza del significato della vocazione salesiana” che è al centro del processo formativo. Le competenze in questo ambito possono infatti essere applicate in modo trasversale: alla vita comunitaria, alla dimensione intellettuale, all’esperienza della preghiera, al vivere i voti, insomma a tutta l’esperienza della sequela del Signore nel cammino tracciato da Don Bosco. Un formatore oggi deve acquisire questo tipo di capacità. Ovviamente, quindi, è fondamentale assicurare la formazione dei formatori, e questa continuerà ad essere una delle grandi sottolineature del sessennio in corso.

L’altro grande punto ha a che fare con la missione condivisa. Il fatto è che, in molte parti del mondo, un gran numero dei nostri collaboratori laici appartiene ad altre fedi o addirittura a nessuna fede. È possibile condividere con queste persone lo spirito e la missione di Don Bosco? In che misura? Le direzioni aperte dalla CG24 sono ancora brillanti e valide, e in più ci sono le aperture fatte dal Magistero nel corso degli anni. Le basi comuni della missione condivisa sono la nostra comune umanità e l’entusiasmo condiviso per la missione di Don Bosco, ed è per questo che la missione può essere condivisa anche con i non battezzati. La Chiesa è sacramento di salvezza, il segno della volontà di Dio di salvare tutti gli uomini. Lo stesso Don Bosco, che aveva cose molto difficili da dire su certe religioni, era anche l’uomo che diceva: “Basta che siate giovani perché io vi ami”. “Basta che siate giovani”: il salesiano di oggi permette quindi al suo cuore di raggiungere tutti i giovani, e anche tutti quelli il cui cuore batte per i giovani, indipendentemente dal colore, dall’estrazione sociale o dal credo. In questo egli è un fedele discepolo di Colui che ha camminato in lungo e in largo per la Galilea e la Giudea, rompendo costantemente i confini e raggiungendo il cuore di Giudei e Gentili, santi e peccatori, oppressori e oppressi.

Ovviamente, le grandi sottolineature dell’ultimo sessennio non possono essere ignorate. Dato che, in larga misura, esse sono sancite nell’animazione e nel governo della comunità e dei giovani salesiani e nell’accompagnamento, gran parte del sessennio in corso sarà fruttuosamente speso cercando di appropriarsi e di assorbire le intuizioni e le direzioni in esse contenute. A ciò si aggiunge il compito che ci è stato affidato dal Rettor Maggiore: quello di rivedere la Ratio e i Criteri e le Norme che l’accompagnano. Oltre al necessario aggiornamento di un documento che nasce sostanzialmente già nel 2000, questa revisione è anche un modo per far sì che i progressi fatti nell’ultimo sessennio siano racchiusi nella Ratio, che rimane uno dei documenti più autorevoli della Congregazione.

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