RMG – Il Consiglio Generale e Don Bosco: voci e testimonianze in prima persona. La parola a don García Morcuende

10 Agosto 2022

(ANS – Roma) –“Maturare come persone per servire come pastori”. È questo, in estrema sintesi, il messaggio che condivide il Consigliere Generale per la Pastorale Giovanile, don Miguel Angel García Morcuende, nel riflettere su come i Salesiani possano essere dei nuovi “Don Bosco” per i giovani di oggi. Ma lasciamo che sia lui a parlarci di tutto il suo rapporto con Don Bosco.

Chi è Don Bosco per lei?

Forse uno degli aspetti che definiscono chi è Don Bosco per me è la sua condizione sacerdotale di educatore. Il suo servizio generoso ai ragazzi più poveri lo richiedeva. Un educatore che ha posto il ministero sacerdotale dove merita di stare: ai piedi dei giovani più abbandonati. E ha voluto che anche i suoi salesiani vivessero appieno il loro ministero. Ammiro la sua insistenza affinché i salesiani pongano lì la loro vocazione. Il sacerdozio di Don Bosco ha motivato la sua vocazione apostolica. E questo, a sua volta, lo ha stimolato a vivere il suo sacerdozio con maggiore generosità. Ecco perché, per me, la dedizione alla pastorale giovanile non è solo uno dei compiti del salesiano, ma una priorità inscritta nel carisma salesiano delle origini e sollecitata dal tempo presente.

Quali sono le caratteristiche di Don Bosco che più ammira?

Uno degli aspetti più interessanti è la promozione della dimensione evangelizzatrice della sua azione pastorale in tutte le piattaforme educative che seppe creare, curando in modo particolare tutto ciò che aiutava il bene degli adolescenti e dei giovani indifesi. Si lasciò sorprendere e affascinare da loro. Sono stati i giovani poveri a “convertirlo”. Da quell’esperienza, con tante realtà emergenti di quel tempo, decise di concentrare la sua vita sulla creazione di ambienti formativi in cui regnassero la gioia, la libertà, lo sforzo, il rispetto reciproco e la partecipazione giovanile. Sapeva dare l’ossigeno delle soluzioni educative per i giovani, anziché l’anidride carbonica delle amarezze e delle lamentele di altri che non riconoscevano il diritto dei giovani a un futuro.

Al contempo, ne ammiro anche la lucidità della fede e il coraggio di concentrare la sua vita sulla fedeltà quotidiana: la preghiera semplice e profonda, l’attenta vigilanza sulle nostre comodità e progetti personali, la preparazione accurata degli interventi pastorali, la forza della fiducia nelle persone, la semplicità per comunicare il Vangelo.

Secondo lei i giovani possono ancora trovare ispirazione in Don Bosco?

Senza dubbio. Con lo stile di Don Bosco i giovani si sentono accolti, riconosciuti e considerati a partire dalla loro unicità. Ma vorrei anche sottolineare il modo in cui Don Bosco concepiva la gioia. Nel mondo dei giovani, la gioia è talvolta una merce rara. E questo è molto attuale perché è un atteggiamento che non può mancare nella spiritualità giovanile salesiana, qualunque sia la nostra situazione. In occasioni straordinarie sarà esultante. In altre occasioni, si tratta di pace serena e appagamento interiore, ed è compatibile con le difficoltà della vita. Un giovane conosce e soffre la tristezza e le crisi, come ogni adulto, ma Don Bosco ci ha insegnato che, anche in queste situazioni, niente e nessuno può o deve privarci della gioia di credere, di riporre la nostra fiducia in Gesù Cristo, di amarLo con il cuore e con le azioni, di sentire la sua presenza vicina, di sapere che siamo abitati e sostenuti dalla presenza di sua Madre, l’Ausiliatrice. La fede ci offre la fiducia fondamentale di essere sempre accompagnati, accolti e confortati da Dio, anche nelle situazioni più disperate.

In che modo i salesiani possono essere nuovi Don Bosco per i giovani?

Credo che oggi ci venga richiesto di maturare come persone per servire come pastori. Per guadagnare in umanità ed essere meno soggetti all’ansia pastorale. Come Don Bosco, abbiamo bisogno di maturare nel nostro progetto di vita come persone e come consacrati. Dio, sempre vicino all’uomo, è diventato definitivamente vicino a noi in Gesù Cristo. Voleva condividere dall’interno la dignità e la servitù dell’essere umano. Come evangelizzatori dei giovani, siamo chiamati a prolungare nella storia, come ha fatto Don Bosco, questa vicinanza del Signore all’umanità. Il nostro carisma salesiano è amico dell’umanità. Un salesiano non deve quindi avere una riservatezza distante e sospettoso, ma una profonda empatia con i giovani affidati alle sue cure.

Di conseguenza, saremo i “nuovi Don Bosco” se coltiveremo la spiritualità della fiducia. Il pessimismo sfiduciato è una componente emotiva importante per chi lavora nel campo dell’educazione. Siamo influenzati dalla paura dell’ignoto e corriamo il rischio di diventare più sensibili ai progetti che alle persone concrete. Tuttavia, per seminare segni credibili di speranza, amore e misericordia nella vita dei giovani, dobbiamo stare con loro.

E in questo discernimento, dobbiamo saper distinguere con attenzione ciò che non è evangelico o è “pastoralmente” morto (per emarginarlo pedagogicamente) da ciò che è ancora vivo. A volte è difficile per noi comprendere la saggia espressione di Martin Buber: “Il successo non è uno dei nomi di Dio”. Cioè, la nostra fedeltà vocazionale è l’amore che resiste all’usura del tempo, alle difficoltà delle nostre società o alle continue sfide del mondo giovanile.

In che modo Don Bosco ispira il suo lavoro di Consigliere per la Pastorale Giovanile?

In primo luogo, mi aiuta a proporre una pastorale dei processi, basata sull’offerta di un itinerario educativo-pastorale completo. Ammiro il fatto che l’evangelizzazione di Don Bosco non si sia sviluppata attraverso azioni isolate, ma attraverso un processo in cui, a poco a poco, ha concretizzato il suo progetto condiviso con i suoi collaboratori e i giovani.

In secondo luogo, mi guida la sua pedagogia pastorale in termini vocazionali: la pastorale vocazionale era ed è una priorità improcrastinabile per la natura essenzialmente vocazionale di tutta la vita cristiana, e l’obiettivo della nostra azione educativo-pastorale è che ogni persona scopra la vocazione a cui il Signore la chiama. 

In terzo luogo, mi è di modello nella cura per la formazione di giovani aperti, solidali, impegnati e credenti.

Se potesse incontrare Don Bosco, cosa vorrebbe dirgli o chiedergli?

Gli chiederei di aiutarci a continuare a costruire Comunità Educativo-Pastorali (CEP) dove salesiani, laici e giovani si sentano uniti dallo stesso obiettivo; che ci dicesse come rafforzare e ripristinare i legami di reciproca accettazione e collaborazione tra le persone e i gruppi che compongono ogni CEP. Ma gli chiederei anche di darmi le chiavi della sua efficienza apostolica a Valdocco: come riuscì a costruire quelle piccole fedeltà quotidiane con un cuore fresco e docile al Signore, e come mantenne quella catena infinita di piccoli “sì”, nonostante la gran mole di problemi che dovette incontrare.

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