Siria – “Non serve parlare la stessa lingua per capirsi”

07 Agosto 2018

(ANS – Kafrun)“Benvenuta, you are welcome here! Welcome Mella, welcome!”. Sono le prime parole che Mariangela Branca, una volontaria italiana, ha ascoltato nell’oratorio salesiano di Kafroun, al confine con il Libano. “Bellissimo sentirselo dire; non serve molto per essere gentili ed accoglienti, ma è altrettanto triste constatare come noi occidentali abbiamo perso la gioia dell’accogliere qualcuno, di dare il benvenuto”.

Beati i bambini e i ragazzi di questa terra che non si stancano mai di dire I love you!”, per dimostrarti l’affetto. Beati quelli che ti abbracciano e baciano continuamente! Sono tenerissimi; un gruppetto si diverte anche ad insegnarmi ogni giorno qualcosa in arabo.

Sono veramente fortunata. Questa zona non è mai stata raggiunta dalla guerra; due-tre volte al giorno va via la corrente: la dilazionano per risparmiarla, poiché molte centrali elettriche sono state distrutte dai bombardamenti.

Uno dei primi giorni, quando la corrente è andata via, stavo guardando delle ragazzine cantare in oratorio; lo stereo si spegne di colpo ma loro continuano a cantare come se nulla fosse. Sembrava un gioco, mi è sembrato bellissimo. Bisogna cantare anche senza musica, pensavo.

Mi avevano detto che questa zona era così bella e tranquilla. Però capisco cosa intendi, molti pensano che la Siria sia solo morte, bombe, guerra. Quasi tutti mi hanno dato della pazza, perché ho deciso di venire qui.

Qui ci sono circa 250 bambini che vengono all’estate ragazzi e una trentina di animatori; tutti cristiani, che sono la maggioranza. Molti provengono dalle zone del conflitto, dalle città colpite: Ohms, Aleppo, Damasco.

Spesso ho sentito dire che “la mia casa non esiste più, ci è caduta una bomba sopra. Per fortuna eravamo già andati via”.

Due giorni fa sono andata ad un funerale di una bambina di 10 anni. Un’emorragia cerebrale improvvisa, stava bene fino a quel momento. Una cosa bruttissima da accettare, da capire. Lo è qui, come in tutto il resto del mondo. Oltre la guerra, i problemi infiniti e le perdite che essa si porta dietro, il resto della vita, delle malattie, degli incidenti, delle disgrazie non hanno uno sconto.

Così come le cose belle continuano ad esistere, gli amori, i divertimenti, gli amici, il mare, le risate, la condivisione, la fiducia.

“Per quello che ho visto, che ho vissuto durante questi anni di guerra ad Aleppo se non avessi molta fiducia in Dio, mi sarei suicidato” si sente ripetere spesso...

La Fede è fondamentale in tutto questo. Mi chiedo spesso cosa posso davvero fare qui, con quelle quattro parole di arabo che conosco e altrettante poche competenze. Ho imparato a confrontarmi con questa domanda, senza che mi faccia troppo male, nelle missioni in Egitto, durante le scorse estati.

Fede, devo avere Fede, mi ripeto. Se Dio ha voluto che fossi qui, sicuramente c’è un motivo, questo mi basta... Devo imparare dalla Fede e dalla speranza delle persone che incontro qui! Quando ne ho più bisogno poi, arriva un “grazie della tua presenza”, che mi fa sentire appagata.

Il colorito olivastro e i capelli neri e mossi mi aiutano ad empatizzare con le persone, a sembrare un po’ meno “aliena”, mi succedeva anche in Egitto. E così sgranocchiando semi di girasole e bevendo il mate mi diverto a dire “Ana surija halla!”, che significa “sono siriana adesso!”.

Per due volte hanno rifiutato il visto per la Spagna ad alcuni ragazzi di qui, per i quali era stata preparata un’esperienza di un mese nell’oratorio salesiano di Madrid (un po’ come quello che sto facendo io qui).

Provo rabbia, delusione, impotenza. Sono bravi ragazzi, studiano all’università, si dedicano gratuitamente ai più piccoli. E l’Europa ha negato loro il permesso di entrare, ha negato la possibilità di fare questa esperienza, perché sono siriani.

Sono molto più bravi di me a nascondere la delusione: “malesh”, non fa niente.

“Perché tu puoi venire qua e noi non possiamo venire in Europa?” mi chiede un ragazzo con una certa amarezza che nasconde ridendo. “Me lo chiedo sempre anche io”.

I bambini giocano, sorridono, scherzano, sono affettuosissimi; sono sempre i migliori nell’affrontare le ingiustizie della vita.

Qui c'è un prete salesiano italiano, don Luciano, da quasi 50 anni in Medio Oriente; poi c’è un salesiano tirocinante, Mhran, siriano ma che parla perfettamente italiano: entrambi mi aiutano con le traduzioni, ma anche con Jhonny e Georgette, salesiani cooperatori, ci capiamo.

Il resto lo fa un po’ d’inglese, qualche mia frase storpiata di arabo e la bellezza di parlare con gli occhi, con i gesti e con il cuore.

Non serve parlare la stessa lingua per capirsi.

Fonte: Don Bosco ICC

InfoANS

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