India – “Non ero degno di essere un martire”. Ricordando il rapimento e la liberazione di don Tom

29 Dicembre 2017

(ANS – Mumbai) – Il 2017 è stato un anno ricco di avvenimenti per la Famiglia Salesiana a livello globale e certamente tra i tanti episodi che si ricorderanno con gioia e gratitudine c’è la liberazione, dopo 18 mesi di sequestro, del missionario salesiano indiano don Tom Uzhunnalil. Oggi lui stesso parla dell’esperienza vissuta, mentre un suo confratello, anch’egli indiano e compagno di missione in Yemen, don George Muttathuparambil, aggiunge un’altra prospettiva su quelle vicende.

Da ostaggio e vittima potenziale ad esempio e fonte d’ispirazione per tanti. Questo è il passaggio che ha compiuto in questi mesi don Tom. Nelle scorse settimane, a margine della consegna del Premio Madre Teresa, il Salesiano ha parlato nuovamente di quanto ha vissuto e, oltre a ricordare la dinamica del suo sequestro e la sua vita ordinaria in isolamento, ha aggiunto anche altre sue considerazioni su tutta la faccenda.

“A tenermi su erano quei versi del Vangelo in cui Gesù dice di non preoccuparsi perché ‘perfino i capelli del vostro capo sono tutti contati’. Quindi sapevo che ogni cosa fosse accaduta sarebbe avvenuta con l’approvazione del Padre Celeste. (…) Il mio amato, benedetto Padre non ci darebbe mai nulla di male; possono sembrare sofferenze, alle volte, ma alla fine per quel che mi riguarda vedo che non ero abbastanza fortunato o abbastanza degno di essere un martire”.

Prosegue: “Non mi sono mai lamentato con il Signore. Sì, alle volte mi domandavo: ‘Perché questo?’, ma sapevo che senza la sua volontà non mi sarebbe successo niente di male. Mentre altri erano stati uccisi, perché io ero incolume? Questo è ciò che mi dava forza. Non era la mia forza personale, non aveva a che fare con me”.

“In tutti questi eventi – continua – vedo la mano di Dio. Ha una missione per ognuno di noi. Forse, la mia missione è stata quella di tornare in Yemen e dare forza alle suore, dato che non sono stato ucciso, forse il Signore voleva che pregassi per queste persone, perché i rapitori potessero cambiare”.

“So che la mia famiglia, tutta la Famiglia Salesiana, il Santo Padre ha pregato per me. Anche fratelli e sorelle indù e musulmani, tutti hanno pregato ed è la loro preghiera che mi ha tenuto calmo e mi ha impedito di soffrire. Oggi potrei essere mentalmente disturbato o aver perso la testa, ma nulla di tutto questo è accaduto, nessun incubo, niente. È la grazia del Signore, grazie alle preghiere di tutti” ha manifestato don Tom.

Alla fine, con grande fede, ha concluso il Salesiano: “Dio volge ogni cosa al bene e vedo che i 18 mesi che ho passato, il mio ritorno in Yemen e poi la liberazione… Dio ha usato quest’opportunità per rafforzare la fede delle persone, come prova che Egli esiste, che è un Dio vivente e risponde alle preghiere”.

Da parte sua don Muttathuparambil ricorda con grande nitidezza, nonostante i quasi due anni da quell’avvenimento, i fatti del 4 marzo 2016. Suor Sally, la Superiora delle Missionarie della Carità nella città portuale yemenita di Aden, era in stato di shock quando lo chiamò al telefono. “Mi raccontò la scena dell’attacco, chiedendomi di telefonare alla Casa Generalizia delle Missionarie a Calcutta, a mons. Hinder, Vicario Apostolico per l’Arabia Meridionale, e all’Ispettore salesiano di Bangalore. Io li contattai e dissi loro tutto quello che era successo”.

Mentre le sue quattro consorelle – Anselm, Marguerite, Regina e Judith – e altre 12 persone vennero uccise, suor Sally si era nascosta dietro la porta della stanza frigo in cucina. Nonostante gli aggressori fossero entrati in quella stanza più volte, non avevano mai guardato mai guardato dietro la porta.

“Per me fu uno shock e qualcosa d’incredibile” racconta don Muttathuparambil, che all’epoca era anch’egli missionario in Yemen, ma a Taiz, a circa 180 km da Aden. Nonostante già in quei giorni lo Yemen fosse lacerato dalla guerra civile che ancora prosegue, il Salesiano non si aspettava una simile situazione. Si sentiva al sicuro a Taiz, dal momento che non era un terreno conteso, ma era sotto controllo il controllo dei ribelli. Era invece preoccupatissimo per quello che sarebbe potuto succedere a don Tom. “Ho esposto il Santissimo Sacramento e con alcune suore abbiamo pregato tutta la notte” riporta.

Intanto, ad Aden, quando le autorità yemenite giunsero presso l’opera delle Missionarie della Carità, osservarono che presumibilmente i miliziani erano giunti già con l’intenzione di uccidere le suore e di rapire il missionario. Cercarono quindi di portare immediatamente suor Sally in un luogo sicuro. All’inizio lei non voleva abbandonare gli anziani ospiti del loro pensionato, ma alla fine cedette. Anche i corpi delle quattro suore uccise furono portati via – ma solo il 9 marzo, a causa della minaccia incombente dei terroristi, un volontario cristiano poté seppellirli.

Il 10 marzo, don Muttathuparambil si trasferì a Sana’a, perché il suo passaporto era in scadenza e doveva tornare in patria; aveva programmato di tornare dopo due mesi, ma i suoi superiori in seguito decisero che la situazione era troppo rischiosa. Anche suor Sally alla fine venne fatta uscire dal paese.

Don Muttathuparambil ha continuato a pregare, come tutti, per don Tom, ed è venuto a sapere della sua liberazione senza alcun preavviso, ma, come la maggiore parte delle persone, dai media.

Oggi don Muttathuparambil prega che la guerra in Yemen finisca presto: “i poveri stanno soffrendo, gli innocenti soffrono, la guerra non è la soluzione”. E sebbene la guerra abbia spinto i Salesiani fuori dal paese, ritiene che la loro assenza sia solo temporanea. “Quando sarà il momento, torneremo” conclude.

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