RMG – Uno sguardo sull’estremo Oriente: la parola di Mons. Yamanouchi, SDB

(ANS – Roma) – Cuore salesiano, grande esperienza come immigrato, visione da Vescovo: si può riassumere con questi pochi tratti la figura di Mons. Mario Yamanouchi, Figlio di Don Bosco dal 2018 alla guida della Diocesi di Saitama. Nei giorni scorsi è venuto in Italia per la Visita “Ad Limina Apostolorum” dei Vescovi del Giappone e ha rilasciato ad ANS un’intervista in cui ha toccato molti e diversi argomenti: Chiesa, inculturazione, salesiani, vocazioni, giovani, migranti, Famiglia Salesiana…

Eccellenza, qual è la realtà della Chiesa nella società giapponese?

La storia della Chiesa nel mio Paese è antica, ed inizia nel 1549 con San Francesco Saverio, Patrono delle Missioni, che ha gettato il primo seme della presenza cristiana nel Paese, lasciando un’eredità di oltre 300mila cristiani, secondo i rapporti dei gesuiti della metà del XVI secolo. Nelle alterne vicende seguite nei secoli, tra persecuzioni, resistenze nascoste e rinascite, oggi ci saranno un po’ più di un 1 milione di cattolici, compresi molti cattolici stranieri che non sono registrati nelle loro parrocchie, su 125 milioni di residenti. Per cui, stando alle statistiche ufficiali i cattolici sono circa lo 0,7% della popolazione.

Una popolazione cattolica che peraltro oggi è fortemente internazionale, giusto?

Esatto. Molti dei cattolici in Giappone sono stranieri, e nella maggior parte dei casi non sono ufficialmente registrati – mentre nei registri ufficiali ci sono solo quelli che danno un contributo mensile alla Chiesa, e sono per lo più giapponesi. Faccio un esempio con la mia diocesi: i cattolici registrati sono 22.000, e questi sono all’80% giapponesi; ma i cattolici in realtà saranno circa 100mila, e questa grande porzione di non registrati sono in massima parte stranieri: soprattutto da Brasile, Perù, e dal resto dell’America Latina, ma anche Filippini. E di recente sono arrivate nuove ondate di Vietnamiti: attualmente ci sono più di 500.000 vietnamiti in Giappone, tra quelli che sono venuti come “Boat People” e le centinaia di migliaia di giovani che più recentemente sono venuti come apprendisti.

Una Chiesa, dunque, numericamente molto esigua. Quali elementi danno sostanza e credibilità alla Chiesa?

Un pregio della Chiesa Giapponese è che è saputa entrare nella realtà sociale del tempo. Ad esempio, nella metà del XX secolo il Paese era davvero molto povero e la Chiesa ha riconosciuto la necessità di strutture sanitarie. In generale, la Chiesa è impegnata in tutte le attività di promozione sociale: asili, case d’accoglienza, attenzione anche ai migranti… E un altro ambito molto apprezzato è quello educativo. Oggi se c’è una società con un livello culturale elevato in Giappone è anche grazie alla Chiesa. E all’impegno di tanti missionari dediti in questo campo – non solo noi salesiani. Questo apre anche ad un’altra considerazione.

Quale?

Che l’impegno nell’educazione in realtà come quella del Giappone porta con sé anche un impegno per l’inculturazione. Gli allievi delle scuole cattoliche da noi sono al 99% non cristiani, per questo si deve riuscire a dare un’educazione secondo i valori cristiani, inculturati nella realtà locale. È, a ben vedere, una chiara manifestazione del richiamo a formare “onesti cittadini” da parte di Don Bosco.

Non deve essere facile il percorso dell’inculturazione in Giappone...

È necessario: soprattutto nelle diocesi e nelle realtà missionarie se ne è capita bene l’importanza, che da noi significa in primo luogo superare la barriera linguistica. Tanti missionari arrivano, ma poi si rassegnano e tornano indietro. Per questo ora si è stabilito che tutti i missionari devono passare i primi due anni studiando la lingua. Ci vogliono dedizione e persistenza. E poi, il processo di apprendimento delle usanze sociali e familiari del mondo giapponese non finisce mai, per il missionario. come per ogni straniero che vive in Giappone.

Lei è stato due volte immigrato, come Giapponese in Argentina e come “Argentino dal volto giapponese” in Giappone, e oggi è Responsabile della Pastorale per i Migranti nella Conferenza Episcopale Giapponese. Cosa ci vuol dire su questo tema?

Come dicevo prima, oggi anche in Giappone ci sono numerosi stranieri: secondo le statistiche attuali, sono quasi tre milioni. Ad esempio, la Prelatura di Saitama, a cui appartiene la mia diocesi, conta quasi 200mila stranieri e si colloca al terzo posto tra le prelature con più stranieri, seguita da Tokio, Aichi, Osaka e Kanagawa. Mi pare un fenomeno di cui dobbiamo prendere coscienza. La politica di accoglienza giapponese in tal senso è piuttosto stretta ed io, insieme con altri Vescovi, specialmente con Mons. Tarcizio Isao Kikuchi, Presidente della Conferenza Episcopale del Giappone, stiamo chiedendo una speciale attenzione al Governo giapponese per quei ragazzi nati o cresciuti in Giappone, ma da genitori stranieri che non hanno o hanno perso il visto di soggiorno e quindi nemmeno i loro figli lo hanno e vivono in una situazione irregolare; così anche se possono studiare, quando diventano adulti non hanno il diritto di lavorare legalmente, di avere un proprio conto in banca. In questo posso dire che lo stile salesiano è molto importante per il dialogo con le autorità governative, perché, emuli di Don Bosco, noi salesiani sappiamo avere quel tratto che aiuta nel saperci confrontare con le persone, anche quando si tratta di personaggi con incarichi di rilievo.

Nel caso degli immigrati cattolici noto anche una certa differenza rispetto ai cattolici giapponesi: molti di loro non erano praticanti nel loro Paese, ma poi in Giappone, per le difficoltà incontrate, trovano comunità che li accolgono, dove possono ritrovarsi insieme nella parrocchia, che così non è più solo il luogo delle celebrazioni e dei sacramenti, ma soprattutto uno spazio per fraternizzare e ricevere energie per andare avanti. I cristiani immigrati sono molto attivi nel servizio sociale e impegnati come “Buoni Samaritani”, ma forse possono prendere esempio dai cattolici giapponesi nel coltivare la solidarietà nel sostegno finanziario delle rispettive comunità parrocchiali. E per i missionari si pone una grande sfida evangelizzatrice, affinché l’attenzione agli stranieri non diminuisca il loro ardore evangelizzatore verso i giapponesi: è urgente rilanciare lo slancio evangelizzatore a far conoscere Cristo nella società.

E riguardo ai salesiani, cosa ci dice?

I Figli di Don Bosco misero piede in Giappone nel 1926, e infatti ormai siamo vicini al Centenario. Quando arrivarono i primi pionieri, tra cui il Venerabile don Vincenzo Cimatti, facevano tutto il possibile: erano pochi, senza denaro, con poco personale…

Oggi i salesiani in Giappone sono circa 80, impegnati con diverse case e opere come orfanatrofi, scuole e parrocchie… secondo una “dimensione profetica nell’educazione”: dove non arrivano le mani dello Stato dobbiamo arrivare noi.

Quali sono le principali sfide che vede per la Congregazione nel suo Paese?

Le sfide sono cambiate molto: i primi missionari lavoravano con Giapponesi; ora dobbiamo dedicarci anche ad accompagnare l’inserimento e soprattutto l'educazione degli immigrati, e nelle nostre parrocchie a lavorare per e con gli immigrati cattolici. I salesiani, come altre congregazioni religiose, sono esemplari in questo processo di creazione e formazione di comunità interculturali nelle nostre parrocchie. La prima fase di offerta di Messe in diverse lingue come servizio pastorale speciale sta già lasciando il posto al consolidamento di una comunità interculturale, cioè Giapponesi e stranieri formano un’unica Chiesa in Giappone. Ma questa è una grande sfida e permanente, perché tutti noi abbiamo una tendenza naturale a un certo nazionalismo o a voler avere la nostra chiesa particolare, chiudendoci nella creazione dei nostri gruppi linguistici e non vedendo la realtà sociale ed ecclesiale del Giappone di oggi, che è interculturale.

Ma penso che la maggiore sfida sia l’interazione con i giovani più bisognosi, perché nelle opere salesiane arrivano quelli della fascia media, sia in senso economico, sia sociale. È proprio il sistema scolastico che funziona così: la scuola va al suo tempo, chi non riesce ad andare al suo passo, resta tagliato fuori. Alle volte vediamo ragazze adolescenti, anche giapponesi, che sono incinte e che abortiscono per non perdere l’anno. O donne, specialmente giovani migranti costrette ad abortire per non perdere il lavoro. Sono sfide importanti, su cui però è cresciuta la consapevolezza di dover agire insieme, in rete, tra Congregazioni e con le diocesi così come con le opere sociali non cattoliche che lavorano per i rifugiati, gli immigrati e le persone più vulnerabili della società.

E riguardo le vocazioni sacerdotali o alla vita religiosa?

In Giappone, insieme alle ondate di immigrazione, stanno arrivando nuovi novizi e quelli in formazione iniziale. Particolarmente degno di nota è il gruppo di novizie provenienti dai Paesi asiatici limitrofi, soprattutto dal Vietnam, dall’Indonesia, dalle Filippine… Ma anche dall’Africa; continuano ad arrivare alcuni missionari dall’Europa, ma quasi nessuno dall’America Latina, anche se c’è un numero considerevole di immigrati, soprattutto di discendenti di origini giapponesi del Brasile (circa 200.000), del Perù (circa 48.000) e molto meno dalla Bolivia, dall’Argentina… Quasi tutte le congregazioni, sia maschili che femminili, sono già in cammino da anni per creare comunità con membri interculturali, ricreando il loro carisma in Giappone. Vedo che la vita religiosa non è estranea al processo di interculturazione che sta avvenendo nella società giapponese, e potrei anche dire che in qualche modo è un modello, nel modo in cui dovremmo costruire il futuro del Giappone. A livello di clero diocesano in Giappone c’è un solo seminario maggiore a Tokyo, ma il numero di seminaristi va dai 25 ai 35 e di candidati giovani e meno giovani. Alcune famiglie religiose condividono gli studi teologici con i seminaristi diocesani. Questo favorisce la fraternizzazione tra religiosi e diocesani, così come tra giapponesi e stranieri.

Così come fu per Don Bosco e i nostri missionari, per la vocazione ci vuole passione. E non dobbiamo dimenticarci che le comunità educativo-pastorali sono più grandi dei soli salesiani: oggi esulto nel vedere la Famiglia Salesiana unita, con laici, giovani, salesiani…

In conclusione, come vede la Famiglia Salesiana in Giappone nel futuro?

Sono fiducioso. Ritengo che Dio ami molto i Salesiani. E poi ci sono anche i Salesiani Cooperatori, l’Associazione di Maria Ausiliatrice, che è riuscita a rinnovarsi bene, con molti membri giovani, sempre più aperta a tutti i membri culturali e anche interreligiosi presenti in Giappone. E poi soprattutto sono convinto che siamo custodi di un messaggio profetico e carismatico universale: il Sistema Preventivo non è solo per i cattolici, ma per tutti coloro che vogliono una vita piena ed è ciò di cui i giovani di oggi hanno bisogno per diventare veri cittadini e costruttori di una nuova umanità.

Non dimenticate di pregare per la Chiesa in Giappone, per i salesiani e la Famiglia Salesiana, e anche per me e per la diocesi di Saitama. Grazie mille, don Harris, per quest’intervista che abbiamo avuto presso la comunità salesiana di Sant’Anna in Vaticano, il 15 aprile scorso, in occasione della mia prima visita Ad Limina Apostolorum.

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