L’autore apre con un’immagine potente e drammatica: un rombo cupo, come di terremoto imminente, preannuncia la rovina dell’edificio sociale. È il sintomo di un male che da anni agita le fondamenta della civiltà: l’odio crescente tra poveri e ricchi, il risentimento delle masse nullatenenti contro i privilegiati – gli uni mossi dall’invidia per le ricchezze altrui, gli altri sempre più sordi alle grida di chi è nel bisogno.
Questo conflitto, osserva don Giovanni Bonetti, autore dell’articolo, ha già insanguinato l’Europa e minaccia di far crollare l’intero ordine sociale, nonostante i tentativi umani di contenerlo con leggi, diffondendo l’istruzione e il progresso civile.
Ma tutte queste soluzioni, da sole, non bastano si rivelano inefficaci. Le leggi rafforzano i potenti, l’istruzione accresce l’insofferenza dei poveri, il progresso – lungi dal portare equilibrio e diffusione dei beni – viene utilizzato per aumentare la distanza tra le classi.
“La conclusione è che cresce la poveraglia e la loro fame, e cresce in pari tempo non il numero, ma l’opulenza e l’avarizia dei ricchi godenti. La storia non solo di Roma pagana, ma di tutte le età e di tutti i luoghi è lì per attestarci questa dolorosa verità” afferma con mestizia don Bonetti.
Di fronte a questa crescente divisione e alla sterilità dei rimedi umani, l’autore individua un unico rimedio sicuro: il Cuore di Gesù. Solo questo cuore, simbolo di amore, sacrificio e giustizia divina, può offrire una soluzione efficace e definitiva al conflitto sociale.
Cristo, infatti, ha nobilitato la povertà con il suo esempio: nacque povero, visse povero, morì povero, circondato da discepoli poveri. Lui stesso insegnò – in primo luogo con la sua vita, e poi con le parole – che la povertà non è un male, ma una virtù, e la pose al primo posto nelle Beatitudini: “Beati i poveri di spirito”. Questa parola, afferma l’autore, è da sola capace di sanare le ferite più profonde dell’umanità. Non è un’ingiunzione contro la ricchezza in sé, che è dono di Dio, ma un’esortazione a staccarsi interiormente dai beni materiali e a porre in essi il giusto valore.
Gesù chiama beati non solo i poveri materiali, ma anche coloro che scelgono volontariamente la povertà per amore di Dio, e chi, pur possedendo ricchezze, ne fa uso retto, generoso, distaccato – consapevole che i suoi beni sono al servizio del prossimo e per l’edificazione dell’umana società.
È in questa visione che l’autore vede la vera ricomposizione dell’unità umana: una società riconciliata, in cui il ricco comprende il dovere della carità e il povero riconosce nella sua condizione non una maledizione, ma una via opportuna per viaggiare più leggeri nella vita e muovere i propri passi sul cammino verso la santità.
La conclusione è un appello alla costruzione e alla consacrazione del tempio al Sacro Cuore di Gesù a Roma, sul colle Esquilino. L’autore vi vede un evento non solo religioso, ma sociale e profetico: il tempio, simbolo dell’amore misericordioso di Cristo, sarà come l’altare della nuova alleanza, non più fondato sul timore, ma sulla dolcezza e sul perdono, e da esso partiranno benedizioni per l’Italia e per il mondo.
L’appello finale, anche in questa circostanza, ai Cooperatori e a quanti zelano il Sacro Cuore di Gesù, è ad agire concretamente in favore dell’erezione del nuovo tempio dedicato al Sacro Cuore che Don Bosco sta erigendo sul colle Esquilino di Roma: ogni offerta, ogni preghiera, ogni contributo alla costruzione di questo tempio sarà una pietra posta per il rinnovamento spirituale e sociale dell’umanità. In un tempo minacciato dall’odio di classe e dalla dissoluzione morale, il Cuore di Gesù è indicato come l’unico vero rimedio, capace di ricostruire la società sulla base della carità evangelica.
Il testo completo dell’articolo scritto per il Bollettino Salesiano del 1886 è disponibile nella versione originale dell’italiano dell’epoca, a fondo pagina.
