Belgio – Don David Tulimelli, SDB: “Finché avrò vita, cercherò di ridare quanto mi è stato dato”

Foto: Don Bosco Magazine

(ANS – Oud-Heverlee) – Circa 10 anni fa, la vita del salesiano indiano don David Tulimelli – 41enne, attualmente residente nell’opera salesiana di Oud-Heverlee – è cambiata radicalmente. All’epoca dirigeva un campo per rifugiati in Sudan del Sud, dove lavorava come parroco e preside di una scuola secondaria. Era una domenica sera, il 15 dicembre 2013, quando aprì il cancello della comunità, e rimase di stucco guardando a ciò che si presentava davanti ai suoi occhi.

“Quando aprii la porta, improvvisamente vidi 2-3.000 persone davanti al nostro cancello. Quasi esclusivamente donne e bambini. In fuga dalla guerra”. Quella stessa sera, nella città vicina si era scatenato l’inferno. La guerra in Sudan del Sud si stava intensificando e la gente scappava. La città distava circa cinque chilometri dalla comunità salesiana – racconta don Tulimelli, meglio conosciuto come don ‘Tuli’ –. È relativamente difficile da raggiungere, ma questo non li scoraggiò. Quando si presentarono a migliaia davanti al nostro cancello, capii che dovevo aiutarli e offrire loro un riparo”.

Una piccola decisione con grandi conseguenze. In pochi giorni, la tenuta si trasformò in un campo profughi per quasi 20.000 rifugiati. Don Tuli ne divenne il responsabile. “È stato un periodo difficile – racconta –. Ho avuto molti dubbi, ma mi è sempre tornata in mente la mia infanzia”.

Tuli e la sua famiglia facevano parte di una delle fasce più basse della popolazione. Frequenta una scuola cattolica e lì entrò in contatto per la prima volta con i Salesiani di Don Bosco. “Accanto alla nostra scuola c’era la casa della comunità. È lì che ho visto per la prima volta i salesiani – spiega –. Erano diversi dagli altri sacerdoti, l’ho capito subito. Si occupavano anche delle classi inferiori, dei bambini poveri. I Salesiani non guardavano allo status sociale o alla religione. Andavano oltre quei confini. Da bambini ci avevano sempre insegnato che doveva esserci una distanza tra il sacerdote e la gente. All’improvviso, ho visto dei salesiani giocare con dei poveri bambini indù. ‘Queste sono persone diverse’, pensai allora. E la porta era sempre aperta per i bambini poveri”.

Uno di questi salesiani era il missionario Jan Lens (scomparso nel 2014) di Anversa. “Jan è ancora una specie di padre per me, quasi una divinità”, continua don Tuli. “È lui che mi ha fatto venire voglia di diventare un salesiano e mi ha dato molti consigli su come essere un buon missionario”. Tuli aveva capito subito, infatti, che voleva essere un missionario. “Da bambino ascoltai molte storie di missionari e fui molto colpito dalla scelta di Jan. Aveva lasciato tutte le sue comodità, imparato la nostra lingua, celebrato la Messa nella nostra lingua e finì persino in prigione. Ha lasciato tutto per diventare uno di noi. ‘Non scegliamo dove nascere, ma dobbiamo fare tutto il possibile per rendere il mondo un posto migliore per tutti’. Queste parole di don Jan le porto sempre con me”.

Ed è esattamente quello che don Tuli voleva fare in Sud Sudan. “Don Jan mi aveva aiutato in passato e ora era il mio momento di restituire qualcosa. Ho seguito il mio cuore e ho lasciato che Dio mi guidasse. Ho visto Dio nei poveri, come anche don Jan lo vide in me”, spiega. “Durante il mio servizio in Sudan del Sud, non ho costretto nessuno a battezzarsi o a cercare di convertire qualcuno. Non cerco un mondo pieno di cristiani, ma un mondo pieno di umanità. Voglio essere per gli altri quello che don Jan è stato per me. La religione non conta in questo senso. Le persone nel campo profughi la pensavano allo stesso modo. All’inizio erano sospettosi: ‘Dobbiamo fidarci di questo prete cattolico?’, ma presto hanno capito chi ero e qual era il mio obiettivo: ‘Non vuole convertirci, ma aiutarci’”.

Anche se non sempre tutto è andato liscio, perché il campo univa anche culture e religioni diverse. “Il campo era composto per il 90-95% da donne e bambini”, racconta Tuli. “Donne e bambini con religioni, rituali, culture diverse e così via. Per molti di loro, c’era la percezione che la loro tribù e la loro religione fossero buone e le altre fossero cattive. Volevo affrontare questo problema il prima possibile. ‘Non mi sto impegnando per un mondo pieno di cristiani, ma per un mondo pieno di umanità. Non siamo tribù o religioni, siamo esseri umani’. Tutte queste donne avevano numerosi traumi da affrontare: la perdita del marito, le violenze sessuali o addirittura le violenze sulle loro figlie e sui figli. Ho cercato di unirle partendo da questo elemento di connessione. Il trauma le ha unite”.

Ciò che è iniziato con la distribuzione di pacchi alimentari si è presto trasformato in un’entità strutturale in cui l’educazione ha avuto un ruolo centrale. “Prima di arrivare in Sudan del Sud, non avevo mai visto un’arma”, racconta don Tuli. “Quindi anche per me è stato uno shock culturale. Un giorno stavamo giocando con i bambini e tutti loro hanno afferrato dei bastoncini di bambù per farne delle armi. Tutti volevano essere soldati. La guerra era al centro di questo Paese. Poi ho capito che dovevamo fare di più. Dovevamo non solo dare da mangiare a queste persone, ma soprattutto educarle. Così, passo dopo passo, sono nate diverse iniziative: corsi di cucito, creazione di gioielli, una panetteria e così via. Ma soprattutto i bambini dovevano andare a scuola. Questa era una priorità per me. ‘Se i bambini non vanno a scuola, allora devono lasciare il campo!’. Sono stato severo, ma ho cercato di guardare al lungo termine. Queste persone non dovevano solo sopravvivere alla guerra, ma dovevano avere qualcosa per iniziare una nuova vita dopo la guerra”.

Passo dopo passo, questa visione è divenuta limpida e condivisa. Così, quando don Tuli ha lasciato il campo, nel 2018, i ringraziamenti sono stati grandi. “Alcune donne si erano riunite per comprare delle scarpe per me. Non volevo prenderle, ma mi hanno obbligato. ‘Quello che siamo oggi è merito tuo’ mi dicevano. Nel 2021 ho visitato di nuovo il campo. Una delle ragazze che avevo aiutato allora aveva chiamato la sua bambina ‘Tuli’. Più tardi ho saputo che c’erano molte altre donne che avevano chiamato il loro bambino ‘Tuli’ o ‘David’”.

Oggi don Tuli guarda al suo periodo in Sudan del Sud con un cuore grato. “Tutte queste esperienze mi hanno fatto capire che Dio ha un suo piano per me. Ho sentito storie tragiche e sperimentato cose dolorose, ma ho anche visto molti cambiamenti positivi”, conclude. “Non guardo il colore, la razza, il sesso, la posizione sociale… Guardo le persone. Quando non ero nessuno, sono diventato qualcuno grazie a don Lens. Ora restituisco ciò che mi è stato dato. Per quanto tempo? Finché avrò vita. E cerco di trasmetterlo anche ai bambini: ‘Il mio aiuto ve lo do gratis, ma dopo fate lo stesso’. La goccia di don Lens mi ha salvato, ora voglio essere io stesso quella goccia. E se tutti questi bambini diventeranno a loro volta una goccia, un giorno potremo costituire un oceano di bontà”.

Tim Bex

Fonte : Don Bosco Magazine

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