«La presenza della Chiesa nelle foreste dell’Amazzonia fa paura. Non alle comunità indigene, ma a chi vuole invadere e sfruttare questo territorio per ottenere i minerali e distruggere la natura. Noi siamo una barriera»: le parole di don Wellington Abreu vengono raccolte dai media vaticani proprio mentre i grandi del mondo sono in Brasile per la Cop30 di Belém, città che è porta d’accesso per la regione amazzonica. E ci ricordano come l’impegno quotidiano e coraggioso per il destino del mondo si gioca anche e soprattutto lontano dai riflettori, nella concretezza dei gesti.
L'impegno dei salesiani in Amazzonia
Don Wellington è un giovane sacerdote salesiano, parroco di San Michele Arcangelo a Iauareté, nella diocesi di São Gabriel da Cachoeira. Iauareté significa «testa del giaguaro». È un crocevia di tredici etnie e cinque lingue dove il fiume è vita, la foresta è casa, certi alberi sono sacri. Basti pensare a Cabeça da Onça, «la testa della tigre», un villaggio situato lungo il fiume Papuri, abitato dagli Hupda, una popolazione indigena che vive di caccia, pesca e coltivazione di mandioca, priva di accesso a internet. L’anno scorso la presenza costante dei salesiani ha portato a un risultato straordinario: 46 indigeni, il 95 per cento della comunità Hupda, sono stati battezzati dopo un anno intenso di catechismo. Eppure, la zona settentrionale dell’Amazzonia resta un punto vulnerabile: dove c’è frontiera, arrivano i trafficanti di droga; dove ci sono i minerali, gli invasori. E qui la legge non basta, il segnale telefonico non esiste, lo Stato è lontano. Chi resta a fianco di queste persone?
Proteggere la vita e ciò che la circonda
«Noi, grazie a Dio, riusciamo ad esserci e a preservare la natura — riprende don Wellington — ma le cose non vanno altrettanto bene nella regione vicina, Roraima, dove due anni fa l’arrivo dei cercatori d’oro ha distrutto il fiume, ucciso molti animali e fatto ammalare gravemente la popolazione. Credo che la nostra presenza faccia paura a questi gruppi che vogliono invadere l’ambiente. E lo capiamo quando le comunità indigene ci accolgono, felici della nostra presenza, chiedendoci di non andare via. Direi che è la presenza della Chiesa ad essere profetica: va oltre la religione. Protegge la vita e ciò che ci circonda. È un’idea, concreta, di ecologia integrale».
Distanze e narcotraffico: i problemi principali
Idea tutt’altro che facile da applicare, però. In Amazzonia c’è anzitutto il problema delle distanze. «La nostra provincia è quella di Manaus — racconta il sacerdote — e da Manaus a São Gabriel da Cachoeira sono quasi due ore di aereo oppure quattro giorni di barca. Poi, da São Gabriel al mio villaggio servono 12 ore di barca con un motore da 40 cavalli, per massimo otto persone. Altro problema: il costo del carburante, altissimo. A volte dobbiamo camminare 4 o 6 ore». C’è poi da considerare il narcotraffico. «Noi siamo in una zona di frontiera — riprende don Wellington — e l’anno scorso abbiamo avuto problemi con dei trafficanti arrivati dalla Colombia: volevano invadere il nostro spazio per recuperare terreno. Con l’aiuto dei militari ora la situazione è tranquilla, ma il traffico di droga passa dalla frontiera e arriva in altre città del Brasile, finendo per coinvolgere anche la comunità indigena e soprattutto, mi spiace dirlo, i più giovani: per loro si tratta di denaro facile».
La speranza nei giovani
Eppure, conclude Wellington, «questo rende ancora più importante la nostra presenza: con le nostre sei scuole vogliamo aiutare gli oltre 300 giovani che sono con noi e aiutare gli abitanti dell’Amazzonia ad avere consapevolezza della vita, della sua bellezza. Essere presenti: non solo nel rapporto con Dio, ma nel far scoprire la gioia della vita».
Guglielmo Gallone
Fonte: Vatican News
